COMMISSIONE PRESBITERALE ITALIANA

PRETI SERVITORI DELLA MISSIONE

IN UNA COMUNITÀ RESPONSABILE

Mons. Gianni Ambrosio Assistente ecclesiastico generale Università Cattolica

Roma, 8 febbraio 2006

Nella figura del prete si gioca una partita decisiva del futuro della Chiesa. La questione del prete non può essere circoscritta ad un ambito particolare o settoriale della vita della Chiesa: essa è questione centrale e decisiva per l’intera comunità ecclesiale. D’altronde la stessa esperienza quotidiana lo attesta chiaramente, come dimostrano – sembra banale ricordarlo – la diminuzione numerica del clero attivo e l’invecchiamento dei preti. Le cifre della diminuzione dei preti in Italia sono significative: erano 66.057 i sacerdoti (diocesani e religiosi) nel 1961, 64.640 nel 1971, 62.861 nel 1981, 57.274 nel 1991, 54.743 nel 2001. Occorre tenere presente che negli ultimi decenni è aumentata la presenza di sacerdoti provenienti da altre nazioni: in alcune diocesi italiane la loro percentuale risulta ormai notevole. Per la situazione di altre Chiese in Europa, si veda J. KERKHOFS (a cura di), Des prêtres pour demain. Situations européennes, Cerf-Lumen Vitae, Paris-Bruxelles 1998. Questa situazione – che segna anche la Chiesa in Italia e, ancor più, altre Chiese in Europa – comporta una serie di conseguenze sia rispetto al presbiterio, sia rispetto alla comunità ecclesiale. Se per quest’ultima si tratta di accettare una problematica ridistribuzione delle "risorse disponibili", per il presbiterio si tratta di ovviare al venir meno di quel clima vitale e comunicativo garantito dall’adeguato equilibrio generazionale, dalla tensione tra l'entusiasmo di chi vive gli inizi del ministero e l'esperienza di chi è nella maturità. Per cui è tutta la realtà ecclesiale ad essere coinvolta nel processo di invecchiamento e di scarsità del clero.

Mi occuperò della figura del prete in rapporto alla pressante richiesta di saper interpretare la nuova stagione religiosa e culturale dell’Italia. Visto che è ormai assodato che pure per la Chiesa italiana non appare semplice trovare soluzioni efficaci e immediate, partirò dalla diminuzione dei preti per focalizzare alcune linee e proposte.

La situazione sollecita innanzi tutto la responsabilità della comunità ecclesiale nella direzione di una più consapevole e più convinta stima per il ministero ordinato, sia presbiterale, sia diaconale. Non si tratta solo di una considerazione positiva dei presbiteri e del loro servizio. Essa è già felicemente riconosciuta ed attestata: i preti, interpreti di molte domande che provengono dal territorio di appartenenza, godono indubbiamente di un largo credito per la loro azione fondata sui valori del gratuito, del dono, del disinteresse, della disponibilità a tutto campo, del servizio educativo, caritativo e sociale. Occorre però andare oltre questo positivo riconoscimento. Si tratta di favorire, a livello ecclesiale, la crescita del significato del ministero nella Chiesa: su questo sfondo appare possibile la promozione delle vocazioni presbiterali.

Una seconda linea di riflessione riguarda più direttamente la figura del presbitero: egli è chiamato, in questo contesto religioso e culturale, ad intrecciare la sua soggettività e il suo ruolo istituzionale. Questo compito è richiesto in particolare dalla molteplicità degli impegni pastorali che possono favorire un attivismo dispersivo, per cui diventa indispensabile una particolare cura per la vita personale, spirituale e culturale del presbitero. Ma il compito è pure richiesto dal maggior risalto della figura di leadership spirituale del prete. Senza sminuire il ruolo di presidenza del presbitero, connesso in particolare alla figura del parroco, oggi appare necessario cercare di coniugare – con saggezza - il ruolo di presidenza, più istituzionale, con la figura di leadership spirituale, più legata al cammino soggettivo-spirituale del presbitero.

L’ultima linea di riflessione riguarda ancora il presbitero in quanto inserito nel cammino del popolo di Dio. Si tratta di tenere insieme le polarità costituite dalla ‘sequela’ e dal ‘servizio’ nell’unico cammino del popolo di Dio. È decisivo questo riferimento al popolo di Dio nella sua concretezza storica e visibile, e cioè nella comunità locale e nella comunità diocesana. Nel legame forte e appassionato con la sua comunità e nell’appartenenza alla sua Chiesa particolare e al suo presbiterio, il prete è chiamato ad un unico esercizio, quello della sua fede personale e quello del suo ministero, nella consapevolezza che il dono della fede in Dio ravviva il mandato di farsi carico della fede del popolo affidato e sollecita la passione di ‘dire’ Dio nei diversi contesti di vita. In tal modo il prete, inserito nel popolo di Dio in cammino, può svolgere i ruoli e i compiti che gli sono affidati con quella creatività che gli proviene dalla rinnovata apertura del suo cuore a Dio e dall’azione di Dio nella storia.

1. La stima per il ministero ordinato

1.1. È necessario favorire una decisa presa di coscienza ecclesiale: la questione della scarsità delle vocazioni al presbiterato si situa all'interno della più ampia sfida della Chiesa di oggi. Anche nella nostra realtà italiana, pur ricca di tradizioni cristiane per molti aspetti ancora vive, "non si può più dare per scontato che si sappia chi è Gesù Cristo, che si conosca il Vangelo, che si abbia una qualche esperienza di Chiesa". Non devono però spaventare le accresciute esigenze della "sfida missionaria" per annunciare nuovamente Gesù Cristo andando incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo e testimoniando che anche oggi è possibile e bello vivere l’esistenza umana conformemente al Vangelo. Anzi, le comunità ecclesiali - e i presbiteri in particolare - devono riconoscere che da sempre nella vita della Chiesa è stata grande la sproporzione tra le necessità e le risorse disponibili. La fiducia nel Signore e una più grande capacità nel fare emergere nuovi ministeri e nuovi collaboratori consentiranno di affrontare con realismo la situazione d'emergenza che va ormai profilandosi all'orizzonte prossimo della Chiesa italiana.

Ogni comunità ecclesiale deve avvertire il dovere di promuovere tutte le condizioni perché non manchino coloro che, dal suo interno, possano accogliere la chiamata a dedicare la vita nel presbiterato. Ad ogni comunità ecclesiale è richiesto un grande impegno per accettare i cambiamenti che la stagione di penuria impone già ora e, ancor più, nel prossimo futuro. Si tratta infatti di intervenire sulle modalità consolidate di organizzazione della pastorale nel territorio promuovendo una pastorale ‘integrata’, con una lettura comune delle esigenze e con una condivisione delle risorse disponibili. Dunque proprio la situazione di scarsità del clero può essere l’occasione per riscoprire "lo stile della parrocchia missionaria", come evidenzia la Nota pastorale sul volto missionario delle parrocchie, in quanto "non c’è missione efficace, se non dentro uno stile di comunione", che comporta disponibilità a lavorare insieme in un pastorale comune. Per cui, prosegue la stessa Nota pastorale, "il ministero presbiterale deve essere ripensato in questo spirito di servizio comunitario a tutti" e "i sacerdoti dovranno vedersi sempre più all’interno di un presbiterio e dentro una sinfonia di ministeri e di iniziative: nella parrocchia, nella diocesi e nelle sue articolazioni".

La carenza di preti deve favorire un discernimento capace di illuminare lo specifico del ministero presbiterale e, contemporaneamente, capace di favorire lo spazio per una più ampia ministerialità.

La maggior attenzione alle risorse pastorali disponibili, con una ridistribuzione più ragionata del clero, e la promozione di una più diffusa ministerialità comportano la necessità di vigilare per evitare che le trasformazioni non si attuino a discapito dello stile evangelico del servizio ministeriale. Nelle esigenze pratiche da affrontare per la diminuzione dei preti non è in gioco solo l’aspetto organizzativo ma anche – e più profondamente - la dimensione sacramentale della Chiesa.

In questa prospettiva la promozione del diaconato permanente e la precisazione degli ambiti ministeriali da affidare ai diaconi possono costituire un elemento importante per garantire la figura sacramentale della Chiesa: le vocazioni al diaconato permanente possono essere uno dei modi con cui il Signore ci aiuta a servire sacramentalmente la Chiesa che ci è affidata.

Occorre poi vigilare sulle trasformazioni del ministero per evitare il rischio di una sua "professionalizzazione" che alla lunga farebbe perdere il senso della gratuità e lo stile della dedizione, essenziali al ministero. La Nota pastorale dell’Episcopato italiano lo afferma con decisione: "Bisogna peraltro dire con franchezza che non c’è ministero nella Chiesa che non debba alimentarsi a un’intensa corrente di spiritualità e di oblatività. La Chiesa non ha bisogno di professionisti della pastorale, ma di una vasta area di gratuità nella quale chi svolge un servizio lo accompagna con uno stile di vita evangelico".

1.2. La riorganizzazione delle risorse pastorali può essere l’occasione propizia per accogliere lo stimolo che viene dal Concilio Vaticano II in favore della ministerialità laicale in un cammino di collaborazione e di corresponsabilità e in uno spirito di comunione tra sacerdoti, diaconi, religiosi e laici come premessa di un modo nuovo di fare pastorale. Tuttavia questa promozione di ministeri laicali può realizzarsi solo in una Chiesa che continua a credere fermamente nella grazia della vocazione al presbiterato e che continua ad avere fiducia nel fatto che Dio chiama anche oggi, pur in un contesto secolarizzato, a dedicare tutta la vita per il servizio del Regno.

D’altronde la penuria vocazionale sembra far parte della più ampia parabola del cristianesimo in Occidente e trova una delle sue cause proprio nell’ "offuscamento della speranza" che l’Esortazione Apostolica Ecclesia in Europa considera tra i segni più negativi e più preoccupanti della cultura occidentale: "Questa parola è rivolta oggi anche alle Chiese in Europa, spesso tentate ad un offuscamento della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questi stati d’animo. Numerosi sono i segnali preoccupanti che, all’inizio del terzo millennio, agitano l’orizzonte del Continente europeo" (n. 7).

Ciò chiama in causa la responsabilità, troppo poco avvertita, delle comunità ecclesiali, invitate a cogliere il senso autentico del ministero presbiterale e a suscitare vocazioni. È una responsabilità che tutto il popolo di Dio deve assumersi.

Le famiglie cristiane sono particolarmente chiamate in causa. Non possiamo non riflettere seriamente su una certa perdita di stima verso le vocazioni al ministero ordinato e, in generale, verso l'ipotesi vocazionale da parte delle famiglie cristiane, in parte dovuta ad una assimilazione acritica della diffusa concezione ‘debole’ dell'azione educativa.

Ma sono chiamati in causa soprattutto i presbiteri, invitati ad avere più iniziativa, più creatività, più coraggio nel proporre la vita sacerdotale e nell'accompagnare i processi di decisione. Troppo diffusa sembra essere la convinzione che l'arrivo di un giovane alla decisione sia un qualcosa di automatico. Come è noto, non è mai stato così e soprattutto oggi non è così, se si considerano i tratti tipici delle odierne giovani generazioni: la "stagione di smarrimento", di cui parla l’Esortazione apostolica Ecclesia in Europa, segna i nostri giovani e li rende incerti e timorosi nelle loro decisioni. Occorre aiutarli con serenità e fiducia nella difficile operazione spirituale che è il discernimento e la decisione. Ed occorre poi accompagnare vocazionalmente ogni età, nella consapevolezza dell'innalzamento medio dell'età in cui si compie la decisione.

Se volessimo riassumere i diversi suggerimenti, potremmo parlare di una triplice attenzione: la prima, più ecclesiologica, sottolinea la responsabilità della comunità ecclesiale nel favorire la stima vera – e non solo ‘funzionale’ - verso il ministero ordinato; la seconda, più teologico-spirituale, insiste in particolare sulla preghiera e sul servizio gratuito e sottolinea il carattere di ‘dono’ del ministero e di sacramentalità della Chiesa; la terza, più pedagogico-pastorale, mette in rilievo l’esigenza della proposta vocazionale e dell'accompagnamento in vista della decisione dei giovani e dei giovani-adulti.

2. L’intreccio di ruolo e di soggettività

2.1. Un dato estremamente significativo che emerge dalle indagini sul clero in Italia è la volontà dei sacerdoti di assumere la complessità socioculturale e di vivere il loro ministero in rapporto ai cambiamenti (ambivalenti) della società italiana. Per un verso tali cambiamenti depotenziano la relazione della Chiesa con il contesto sociale che tende a organizzarsi indipendentemente dal riferimento alla fede cristiana. Per altro verso gli stessi cambiamenti fanno sorgere una domanda, spesso confusa, di identità, di fiducia e, alla fin fine, di fede.

Questa situazione, connessa alla complessità postmoderna, mette certamente a prova il ministero presbiterale. Una prova che, in verità, non si esprime come ‘crisi’, come demotivazione e perdita di identità: la ‘crisi’ sembra essere più tipica dei decenni scorsi che non del presente. Nell’attuale contesto la difficoltà dei preti sembra consistere soprattutto nel ridefinire la propria identità e il proprio ruolo.

La prova odierna consiste, infatti, nella fatica di affrontare con il giusto atteggiamento la complessità, quella socio-culturale in primo luogo ma poi anche quella ecclesiale. Una fatica che è, contemporaneamente personale, pastorale e istituzionale, in rapporto cioè al proprio cammino di fede, alla pesantezza e lentezza delle istituzioni ecclesiali, al contesto sociale-culturale dalle esigenze contrastanti. In verità, come diremo più avanti, una buona parte dei preti italiani sembra individuare soprattutto nello scarso "aggiornamento" delle istituzioni ecclesiali la causa della fatica personale e del disagio del ministero.

Scarsa appare, infatti, la riflessione sul contesto socio-culturale e sulla diffusa insensibilità delle coscienze. Più esattamente, viene certamente riconosciuto l’influsso negativo della secolarizzazione, ma viene presto inteso come un dato tipico della società avanzata. Un dato che influisce negativamente sulla proposta cristiana senza però scardinarla, in quanto ritenuto un condizionamento certamente pesante ma ‘esterno’ alla fede cristiana. Così fenomeni preoccupanti come l’annullamento di ogni tensione verso l’alto e verso il futuro, l’accettazione passiva della situazione provvisoria e frammentata, la volontà ripiegata su se stessa, il soddisfacimento dei bisogni, il rifiuto dell’impegno costante e duraturo, fino ad arrivare all’insidia di concepire la vita come una corsa senza traguardo e senza meta, tendono ad essere considerati ‘esterni’ alla missione della Chiesa. Mentre è fin troppo evidente che dovrebbero diventare la questione centrale della riflessione e dell’azione pastorale, in quanto costituiscono elementi importanti in vista di una diagnosi della condizione spirituale del nostro popolo, e dunque in vista di un progetto pastorale che si confronta con tale situazione.

Se il bisogno di salvezza, che dimora dentro al cuore di ogni uomo, si articola in domanda di salvezza in maniera diversa rispetto al passato, appare necessario comprendere l’articolazione dell’odierna domanda di amore, di comunione vera, di ragioni serie per superare il piccolo cabotaggio, di speranza trascendente: l’uomo chiede che gli sia ridata la capacità di amare, di una comunione vera, di orientarsi verso il futuro riascoltando la "Parola" che è "presenza" e "promessa" capace di rompere il cerchio delle angustie dell’oggi. Questo esige – come il Concilio Vaticano II ha insegnato – che la pastorale lasci chiaramente trasparire che l’uomo si realizza nel dono di sé, promuovendo un clima di fiducia e di realismo, vigilando sull’immagine del servizio ecclesiale e sull’evangelicità dello stile complessivo dell’agire del presbitero.

Se la lettura troppo dicotomica (interno/esterno), oltre che troppo rapida, consente a molti preti di avere uno sguardo positivo e possibilista circa il futuro della fede cristiana nel nostro paese, può tuttavia rappresentare un grave limite se, come pare, essa è favorita da una troppo scarsa considerazione degli effetti culturali, antropologici e coscienziali del processo di secolarizzazione. Inoltre la sottovalutazione delle problematiche tipiche di una società postmoderna, pluralista e multiculturale, che in parte compromette e logora il tessuto di base dell’agire pastorale, comporta il pericolo di un’eccessiva attenzione alle difficoltà interne alla realtà ecclesiale e in particolare alle problematiche relative all’istituzione ecclesiastica. Lasciamo per ora da parte questo aspetto, per soffermarci sulla fatica dovuta non solo alle molte attività pastorali ma anche alla tensionalità fra soggettività del prete e contesto istituzionale.

2.2. È indubbio che la molteplicità degli impegni pastorali può indurre ad un attivismo accentuato e dispersivo. Si esige dunque una cura particolare per la vita spirituale del presbitero. Questa esigenza è particolarmente avvertita e, tra l’altro, sembra prefigurare un maggior risalto alla figura di leadership spirituale del prete. Ciò non significa dimenticare o sminuire il ruolo di presidenza del presbitero, connesso in particolare alla figura del parroco. Significa piuttosto il tentativo di coniugare il ruolo di presidenza, più istituzionale, con la figura di leadership spirituale, più connessa al percorso soggettivo-spirituale del presbitero.

Questo tentativo comporta naturalmente una certa trasformazione dell'esercizio del ministero e della stessa pastorale. Se la ricerca di nuove modalità per l'esercizio pratico del ministero non si pone – almeno nelle intenzioni - in contraddizione con l'affermazione del ruolo istituzionale e con la proposta proveniente dai programmi pastorali nazionali e diocesani, tuttavia queste nuove modalità, che pongono in rilevo la dimensione soggettiva del prete, possono creare una certa tensionalità all’interno del presbiterio e con il vescovo. Ma questa tensionalità non solo non deve sorprendere ma può essere considerata un aspetto interessante della situazione odierna. Nel senso che tutto il presbiterio è invitato ad essere più attento alla cura dell’umanità e della vita spirituale dei presbiteri (attraverso il riposo, lo studio, la cura delle relazioni gratuite, la preghiera e la riflessione comune). Incombe infatti la tentazione di lasciarsi afferrare dal ritmo frenetico e defatigante del lavoro imposto dal ruolo, così come incombe il rischio di smarrire le motivazioni di fondo del proprio ministero.

Occorre però andare oltre questa prospettiva sapienziale pur importante. Più in profondità, l'attenzione alla soggettività del presbitero deve far emergere la dimensione di fede del ministero, nel senso che il prete assume e vive il ministero come esperienza di fede che lo rende capace di prendersi cura e di farsi carico dell'intera comunità cristiana. In questo senso si può venire incontro alla figura di leader spirituale. L’essere presbitero non significa solo essere abilitato ad una funzione, ma essere capace di vivere una relazione di responsabilità a partire dalla coscienza di un mandato che lo dispone ad esso.

Si può quindi ricuperare il ruolo a partire dalla dinamica soggettiva della propria spiritualità e dal farsi carico del cammino di fede della comunità: così il prete può plasmare con creatività il suo ministero in contesti difficili come quelli attuali, in cui il ruolo è accolto nella misura in cui chi lo ricopre sa vivere e promuovere le dinamiche di leadership che, peraltro, sono implicate nel ruolo stesso.

Si possono in tal senso far valere le interessanti prospettive indicate dalla teologia spirituale del prete, in particolare l’indicazione di pensare e vivere il ministero del prete nell’interazione fra la sua figura di cristiano, il suo cammino di santità e la sua attività pastorale: la valorizzazione del dinamismo della fede implicata nell'esercizio del ministero può così consentire di ricuperare una maggior plausibilità del ruolo istituzionale.

La valorizzazione congiunta del ruolo istituzionale e della propria soggettività esige che vengano pure accolte le indicazioni che provengono dagli studi relativi alle grandi organizzazioni, ove appare importante superare il deficit di identificazione istituzionale ed organizzativa. Se una certa distanza fra vertice e base o fra centro e periferia è tipica delle organizzazioni complesse, è necessario un particolare impegno per un ampio senso di appartenenza, per una maggiore condivisione degli obiettivi comuni, per un rispetto dei diversi ruoli organizzativi, per una comunicazione più continuativa con chi svolge compiti specifici e particolari. Se "è finito il tempo della parrocchia autosufficiente", è pure il finito il tempo del prete o del parroco autosufficiente, lontano e distaccato, incapace di collaborare e di dialogare con i confratelli, con i servizi della curia diocesana, con la Chiesa diocesana e nazionale e, alla fin fine, con la sua stessa comunità. Oggi, nell’ottica della missione, è particolarmente indispensabile questo spirito di comunione e di collaborazione, per valorizzare il lavoro comune e per dare spazio a chi, spinto dal proprio carisma o dalla propria intuizione e sensibilità, opera in campi di frontiera o si rivolge ad ambienti e ad esperienze particolari. Come ricorda la Nota pastorale: "Già nei primi tempi della Chiesa la missione si realizzava componendo una pluralità di esperienze e situazioni, di doni e ministeri, che Paolo nella lettera ai Romani presenta come una trama di fraternità per il Signore e per il Vangelo (cfr Rm 16, 1-16)".

3. La sequela e il servizio

3.1. La cosiddetta ‘civiltà parrocchiale’ è tramontata. Indubbiamente il venir meno di tale civiltà si ripercuote non solo sull’attività pastorale e sulla sua organizzazione ma anche sui preti, sulla loro identità, sulla loro vita. È chiaro che il declino della civiltà parrocchiale che aveva al suo centro la parrocchia e il parroco provoca una situazione di crisi. In effetti, nel nostro seminario ci si è chiesti se "bisogna parlare di crisi del clero tout court o di crisi, prima di tutto, del clero parrocchiale", per il cambiamento della parrocchia, per il rapporto più problematico tra uomo e territorio, per una certa solitudine del prete in parrocchia, per la tendenziale unicità della parrocchia nella morfologia istituzionale cristiana.

Se il contesto di civiltà rurale aveva al suo centro la parrocchia, e quindi la figura del parroco, proprio a partire da questa centralità risultava relativamente facile per il parroco comporre in modo equilibrato la sua funzione istituzionale e la propria dimensione spirituale e vocazionale.

Occorre però andare oltre agli schematismi. Essi sono certamente utili per tratteggiare a grandi linee un’epoca o per delineare uno specifico stile di vita, ma sono poco illuminanti rispetto alla complessità storico-sociale ed istituzionale.

La storia insegna che la parrocchia, pur centrale, non è mai stata l’unica istituzione ecclesiale. Insegna pure che la parrocchia, anche nel contesto rurale, è sempre stata in rapporto – a volte, anzi, assai spesso, tensionale - con monasteri, confraternite, congregazioni religiose, santuari. Insomma, ci sono sempre state altre realtà con cui nella Chiesa si è offerta ed assicurata una forma comunitaria all’esperienza di fede, anche se la parrocchia si è distinta e qualificata per la vicinanza alla vita quotidiana della persone che vivono in un determinato territorio. Inoltre, sempre dalla storia, sappiamo che anche nel passato vi furono periodi di crisi della parrocchia e che da tempo si parla di crisi del clero.

Certo, oggi quella vicinanza alla vita quotidiana da parte della parrocchia e del parroco è decisamente più allentata anche perché più complesso ed articolato si presenta il legame con il territorio, un legame che "risulta moltiplicato, perché la vicenda umana si gioca oggi su più territori, non solo geografici ma soprattutto antropologici".

Questa situazione può risultare effettivamente difficile per il prete, soprattutto per il parroco. È quindi opportuno soffermarsi su una questione seria e delicata che spesso non viene messa a tema. Intendiamo riferirci al fatto, cui abbiamo già fatto cenno, che queste difficoltà del ministero pastorale nell’attuale situazione storica possono favorire una sorta di recriminazione generalizzata nei confronti della società e della cultura e soprattutto nei confronti della Chiesa. Spesso le difficoltà pastorali vengono imputate all’istituzione ecclesiale e all’immagine di Chiesa, più che essere colte nella loro realtà oggettiva. Si viene così a creare nei presbiteri un tendenziale disagio rispetto alla figura storica dell’istituzione ecclesiale, nel senso che si tende ad evidenziare e ad accentuare il contrasto tra la pastorale immaginata o sognata e la pastorale reale, concreta, quotidiana.

Poiché la questione è, come dicevamo, seria e delicata, conviene cercare di cogliere la distorsione che, forse inconsapevolmente, si insinua nell’atteggiamento di alcuni presbiteri. Il punto di partenza di un simile atteggiamento - che meriterebbe di diventare oggetto di una riflessione più distesa - è il confronto fra ministero pastorale e forme odierne della vita sociale e culturale. Un confronto che mette indubbiamente in risalto il disagio dell’attività pastorale, non da ultimo quello relativo all’esigenza di conciliare le molte tradizioni con l’urgenza di accogliere la sfida missionaria, non disperdendo, da un lato, il carattere popolare della Chiesa in Italia ma, d’altro lato, rispondendo alle sollecitazioni di una realtà sociale e culturale in cui si moltiplicano gli indizi di disorientamento.

Ma questa valenza di interpellazione della situazione storica e dell’esperienza effettiva sembra essere subito disattesa, spesso a favore di un’idea vaga e astratta di missione. Si potrebbe dire che accade oggi, a livello di atteggiamento pratico, ciò che è accaduto ieri alla dottrina teologica tradizionale, alquanto estranea alla considerazione della storia, anzi imbarazzata di fronte all’esperienza dei nuovi processi storico-sociali. Così, mentre la dottrina teologica tradizionale sviluppava una riflessione riferita a modelli desueti (il tomismo), ora si tende da parte di diversi preti a sviluppare un’immagine di Chiesa e di ministero riferita a modelli ideali-utopistici. Per cui la figura di prete e di comunità cristiana, lontana dalla concreta considerazione storica, si lascia fortemente sollecitare da fascinose ma ingenue suggestioni spirituali ed ecclesiologiche. Sarebbe interessante – ma forse un po’ impietoso – ripercorrere i molti slogan che hanno espresso suggestioni idealistiche a proposito della comunità cristiana e dello stesso ministero.

Per altro verso non si può dimenticare che altri preti (a volte, proprio quelli più giovani) si riferiscono a modelli desueti, rimproverando l’istituzione ecclesiale di averli trascurati. Sarebbe ugualmente interessante, anche in questo caso, evidenziare come formule pastorali apparentemente nuove celino di fatto una visione nostalgica di Chiesa, del tutto estranea e marginale rispetto ad una realtà in profondo cambiamento, con famiglie che spesso non sono più luoghi di trasmissione religiosa, con una società segnata da un crescente pluralismo culturale e religioso ed incline all’indifferenza e al relativismo.

Insomma, per un verso e per l’altro, si impone una maggior considerazione dell’odierna realtà sociale e culturale e soprattutto un maggior impegno di riflessione culturale e di discernimento pastorale per riavvicinare la proposta e la domanda, l’ideale e il vissuto, il modello e la vita quotidiana, superando l’inerzia di una pastorale della conservazione ma ricuperando il senso di una missione evangelizzatrice che si misura con questa società in profonda trasformazione.

3.2. Proprio la distanza dalla realtà concreta e quotidiana è spesso all’origine del malessere di diversi preti nell’esercizio stesso di quel ministero che rende visibile la Chiesa di Cristo nella storia. Ciò può diventare causa di una scarsa sintonia di diversi preti con l’istituzione ecclesiale, la cui immagine riflessa nella pastorale viene percepita come troppo sbiadita o troppo astratta, comunque ritenuta inadempiente rispetto all’immagine ideale.

Si potrebbero in proposito fare molti esempi. Basti qui solo un accenno alla parrocchia come comunità, spesso intesa e proposta secondo un modello decisamente utopico, o comunque incapace di confrontarsi con le odierne condizioni di vita. Il riferimento a questo modello ha portato alcuni preti ad abbandonare l’ospitalità tipica della parrocchia e il suo legame vitale con il territorio. Con il rischio di creare una comunità selettiva, caratterizzata da una supposta sequela radicale e da idilliache relazioni interpersonali, "paga dell’esperienza gratificante di comunione che può realizzare tra quanti ne condividono l’esplicita appartenenza". Ma anche con il rischio di trascurare la vita della parrocchia nella sua realtà concreta e complessa, di sottovalutare o di dimenticare le sue potenzialità comunitarie ed anche missionarie già presenti. In tal modo – e non è l’aspetto meno problematico dal punto di vista di una pastorale che vuole rispondere alle esigenze dell’oggi – si impedisce di pensare alla formazione di una comunità cristiana rispondente alle odierne condizioni di vita.

Si tratta allora, tenendo realmente conto della storia e partendo dalle obiettive difficoltà pastorali, di ripensare il ministero presbiterale superando le distorsioni dell’immaginazione utopistica, senza tuttavia cadere nell’adattamento passivo e rassegnato alla situazione.

La figura del presbitero nelle attuali condizioni di vita può emergere solo in un rapporto sereno con l’immagine autentica di Chiesa "popolo di Dio" in cammino, con la sua presenza storica nella realtà complessa del nostro tempo. Giustamente nella Nota pastorale si afferma che "a livello di parrocchia si coglie la verità di quanto afferma il Concilio Vaticano II, e cioè che "la Chiesa cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena" (Gaudium et spes, n. 40). Ma è ovvio che pure – anzi, et quidem, - a livello di parroco e di ministero presbiterale si deve poter cogliere la stessa verità di una Chiesa che cammina con l’umanità tutta. Per questo, prosegue la Nota pastorale, le comunità parrocchiali – e in modo particolare i parroci – hanno il dovere "di attrezzarsi culturalmente in modo più adeguato, per incrociare con determinazione lo sguardo spesso distratto degli uomini e delle donne d’oggi. Anche in questo caso, più che di iniziative si ha bisogno di persone, di credenti, soprattutto di laici credenti che sappiano stare dentro il mondo e tra la gente in modo significativo. Laici credenti ‘di forte personalità’, come dice il Concilio (Gaudium et Spes, n. 31) ". Ancora una volta - è ovvio ribadirlo - ciò che è richiesto ai laici è quanto mai richiesto al presbitero.

L’esigenza di ripensamento della figura del presbitero e di riforma dell’organizzazione pastorale comporta dunque l’impegno di sintesi dei diversi elementi che compongono la figura del prete e ne precisano la sua identità.

In particolare si può sottolineare la tensione fra la figura presbiterale pensata in rapporto alla chiamata-sequela evangelica e quella riferita al pastore che ha cura del gregge affidatogli. Al di là della polarizzazione, che comporta indubbiamente prospettive e impostazioni diverse, occorre riconoscere che le polarità accennate rischiano di essere intese e vissute in una prospettiva molto individuale, dando origine non solo a sottolineature diverse ma ad interpretazioni del ministero che, per molti versi, possono disattendere la dedizione appassionata del pastore e il ruolo guida-presidenza-leadership del presbitero.

Proprio nel riferimento al popolo di Dio, nella sua traduzione visibile e reale della comunità locale, il prete è chiamato a tenere insieme la dimensione di vita personale e l’attività pastorale, sottolineando in particolare la sua dedizione appassionata alla comunità. È nota la formula di A. Chevrier - le prête, c’est un homme mangé - attraverso cui intendeva esprimere il servizio pastorale nel segno di quella povertà del sacerdote che è "la sua forza, la sua potenza, la sua libertà" - cf. Le véritable disciple, Prado, Editions Librairie, Lyon 1968, p. 519.

Proprio nel legame con la sua comunità e nell’appartenenza alla sua Chiesa particolare e al suo presbiterio, il prete è chiamato ad un unico esercizio, quello della sua fede personale e quello del suo ministero. La celebrazione eucaristica come alimento della vita ecclesiale e sorgente della missione, la devozione personale che rinnova la bellezza e la gioia della chiamata, il vissuto interiore sostenuto dalla meditazione e dalla continua formazione spirituale e culturale, la fraternità vissuta nelle buone relazioni all’interno del presbiterio sono le condizioni di fondo per cogliere il mistero di Dio nell’interno di sé e, al tempo stesso, per ravvivare la passione di ‘dire’ Dio nelle pieghe oscure della storia.

La missione della Chiesa si svolge nel mondo e nella storia, nei contesti di vita, nelle situazioni storiche. Così è per il prete, chiamato a vivere una relazione di servizio e di responsabilità per la comunità a partire dalla coscienza di un dono di fede – e di un mandato - che lo dispone a farsi carico della fede altrui. Nella rinnovata apertura del suo cuore a Dio, il prete si apre alla storia concreta e alla azione di Dio in essa. In questo modo il prete può individuare spazi di discrezionalità e di creatività dentro i ruoli assegnati e nello svolgimento dei compiti che gli sono affidati. Il pastore, inserito nel cammino della sua comunità, è ‘vincolato’ al popolo di Dio e alla sua struttura sacramentale e gerarchica, ed è chiamato a stare dentro questa realtà in maniera personale, nella fedeltà e nella creatività.

Conclusione

Si può applicare alle modalità relativamente nuove dell’odierno ministero presbiterale quanto sant’Agostino diceva nel sermone ai pastori a proposito del ministero episcopale: "Noi siamo vescovi, ma con voi sono cristiano" ("Nos episcopi sumus, sed vobiscum christiani sumus"), o, in altro luogo, "personalmente, siamo cristiani, non per altro che per voi siamo chierici e vescovi" ("Christiani sumus propter nos, clerici et episcopi non nisi propter vos"). Per Agostino è fondamentale il principio che il ministero venga inteso e vissuto come servizio dei fedeli: "l’episcopato designa un’attività, non un onore" ("episcopatus (…) nomen est operis, non honoris")e "il vescovo presiede in quanto serve" ("praeest episcopus, sed si prodest").

Le precise indicazioni di sant’Agostino riguardanti il ministero episcopale possono essere di aiuto per l’attuale ripensamento del ministero presbiterale. Queste indicazioni sembrano in qualche modo riecheggiare nella Nota pastorale sulla parrocchia il cui volto missionario esige preti "servitori della missione in una comunità responsabile" . Dopo aver espresso "la gratitudine di tutta la comunità cristiana per il servizio prezioso dei nostri preti", i Vescovi italiani affermano che è necessario "creare condizioni perché ai nostri preti non manchino spazi di interiorità e contesti di relazioni umane, (…) occasioni di vita di comunione e di fraternità presbiterale, iniziative di formazione permanente per sostenere spiritualità e competenza ministeriale". I Vescovi concludono affermando che "è richiesto anche un ripensamento dell’esercizio del ministero presbiterale e di quello del parroco", ripensamento che deve "ripartire dal Vangelo, riletto nelle mutate situazioni": "Ai capi della comunità, nel vangelo di Matteo (cfr Mt 18,12-14), la parabola del pastore e della pecora perduta ricorda che per il pastore evangelico il gregge che gli è affidato non è costituito solo dalle pecore vicine ma anche – e allo stesso modo – da quelle lontane o smarrite. Al pastore sono richieste la custodia e la ricerca, perché il Padre celeste ‘non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli’ (Mt 18,14). Il ministero presbiterale deve esser ripensato in questo spirito di servizio comunitario a tutti. Sono atteggiamenti da coltivare fin dalla formazione dei seminari". Naturalmente sono atteggiamenti da coltivare sempre e da attuare in ogni circostanza da parte di ogni presbitero.

 

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Bibliografia essenziale

Cfr. la Nota pastorale C.E.I. Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 30.05. 2004, in particolare all‘ "obiettivo" n. 7 dell‘Introduzione: "una parrocchia missionaria ha bisogno di ‘nuovi‘ protagonisti: una comunità che si sente tutta responsabile del Vangelo, preti più pronti alla collaborazione nell‘unico presbiterio e più attenti a promuovere carismi e ministeri". Cfr. pure i nn. 6. 11.12.

È però opportuno collocare la riflessione sullo sfondo della copiosa bibliografia sul ministero presbiterale.

Si veda in proposito la rassegna bibliografica presentata in AA.VV., Il ministero ordinato. Nodi teologici e prassi ecclesiali, (a cura di M. Qualizza), San Paolo, Milano 2004 e in F. G. BRAMBILLA, La parrocchia oggi e domani, Cittadella Ed., Assisi 2003, pp. 317-323.

Tra le opere più significative per la nostra specifica riflessione segnaliamo le seguenti:

- per i documenti più recenti del Magistero cf. la Nota pastorale C.E.I., Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia e una loro bibliografia essenziale, in AA.VV., Il prete e la sua immagine, EDB, Bologna 2005, Introduzione, nota n. 1;

- dal punto di vista storico e sociologico: M. GUASCO, Seminari e clero nel ‘900, San Paolo, Cinisello Balsamo 1990 e M. OFFI, I preti, Il Mulino, Bologna 1998.

- dal punto di vista teologico: G. GRESHAKE, Essere preti. Teologia e spiritualità del ministero sacerdotale, Queriniana, Brescia 1995 (ed. or. tedesca del 1982, con diverse riedizioni); G. MARTELET, Teologia del sacerdozio. Duemila anni di Chiesa in questione, Queriniana, Brescia 1986 (ed. or. francese del 1984); S. DIANICH, Teologia del ministero ordinato. Una interpretazione ecclesiologica, Paoline, 1984. P. NEUNER, Le ministère ecclésial – changement d’identité, in J. KERKHOFS (a cura di), Des prêtres pour demain, cit., pp. 57-182; T.F. O’MEARA, Theology of Ministry. Completely Revised Edition, Paulist Press, New York – Mahwah, 1999; F. G. BRAMBILLA, Il prete nel cambiamento, in "La Scuola Cattolica", 130 (2002), pp. 539-570; ID., Il Ministero ordinato, Queriniana, Brescia 2002;

- dal punto di vista spirituale e pastorale: CEI-Commissione per il Clero, La spiritualità del Prete Diocesano, (a cura di F. Brovelli e T. Citrini), Glossa, Milano 1990; AA.VV., Il prete. Identità del ministero e oggettività della fede, (a cura di G. Colombo), Glossa, Milano 1990; J. DORE’ - M. VIDAL, Des Ministres pour l’Eglise, Cerf, Paris 2001; LUSTIGER J.M., I preti che Dio ci dona, Massimo, Milano 2001; G. MOIOLI, Scritti sul prete, Glossa, Milano 2002; L. BRESSAN, Preti di quale Chiesa, preti per quale Chiesa. Mutamenti di funzione, mutamenti di identità nella figura presbiterale odierna, in "La Scuola Cattolica", 130 (2002), pp. 507-538; S. PAGANI, Linee antropologiche per l’esercizio del ministero ordinato, in "La Scuola Cattolica", 130 (2002), pp. 463-481;

- dal punto di vista delle indagini socio-religiose e della presentazione tipologica dei preti: P.M. ZULEHNER – A. HENNERSPERGER A., Sie gehen und werden nicht matt. Priester in heutiger Kultur. Ergebnisse der Studie Priester 2000, Ostfildern, Schwabenverlag 2001 (i risultati di questa indagine, riguardanti i preti diocesani di Austria, Germania, Svizzera, Croazia e Polonia, sono stati sintetizzati in italiano nel saggio Preti nella cultura contemporanea, in "Il Regno" 14 (2001), pp. 483-489); AA.VV., Sfide per la Chiesa nel nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, (a cura di F. Garelli), Il Mulino, Bologna 2003 (ci riferiamo spesso a questa indagine, realizzata tra la fine del 2000 e il 2001 dall’Istituto demoscopico Eurisko ed analizzata da F. Garelli, R. Ferrero Camoletto, G. Ambrosio, L. Bressan, E. Pace, M. Offi); La parabola del clero. Uno sguardo sociodemografico sui sacerdoti diocesani in Italia (a cura di L. Diotallevi), Ed. Fondazione Agnelli, Torino 2005.