COMMISSIONE PRESBITERALE ITALIANA
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

L’esperienza presbiterale per una proposta positiva (REGIONE LOMBARDIA)

PremessaDobbiamo osservare la situazione della vita e del ministero presbiterale con obiettività, ma anche come una chance . Se una piccola schiera di uomini, discepoli di Gesù ha posseduto un tempo una forza vibrante per il mondo intero, perché non dovrebbe essere possibile a noi, anche se in altre condizioni e sotto un’altra forma, vivere […]
4 Marzo 2001

Premessa
Dobbiamo osservare la situazione della vita e del ministero presbiterale con obiettività, ma anche come una chance . Se una piccola schiera di uomini, discepoli di Gesù ha posseduto un tempo una forza vibrante per il mondo intero, perché non dovrebbe essere possibile a noi, anche se in altre condizioni e sotto un’altra forma, vivere e far nascere la fede oggi?
Certamente sorgono una serie di interrogativi. Non neghiamo il fatto che in non pochi di noi domina una grande perplessità su come può e deve apparire, nelle condizioni attuali del nostro mondo e della società, una vita convincente e improntata al Vangelo. Il pluralismo, la complessità della vita odierna e il graduale disfacimento della simbiosi tra chiesa e società, fa apparire molte forme tradizionali per tradurre il Vangelo discutibili, inefficaci o addirittura irreali. Questo però vale nel campo personale e privato come in quello pubblico e sociale. Lo si vede certamente nella vita e nel ministero del prete, nella sua realtà di credente e di ministro nella Chiesa per il mondo. La domanda che è onesto porsi potrebbe così essere formulata: come appare la vita del cristiano prete che vuole annunciare il Vangelo?
Forse troviamo una risposta se noi preti, insieme con i laici e gli altri ministri, ci mettiamo a elaborare obiettivi concreti per la costruzione di una comunità e per i punti fondamentali della nostra vita e del nostro ministero. Soprattutto operando un sano discernimento ecclesiale che porti a qualche scelta.
Vuole essere questa una semplice "sosta di interiorizzazione" nel e per il ministero, una riflessione ad alta voce a partire dal "vissuto".
Tutti noi veniamo da una concezione e da una formazione individualistica dell’Ordine dovute all’occultamento del Presbiterio fin dal secolo IV. Una solitudine esistenziale e pastorale che oggi è in parte conseguenza di una limitata concezione sacramentale. L’esodo richiesto è la conversione e l’attuazione di un modello ecclesiologico comunionale–missionario e della sua ricaduta nella vita del prete. Per questo ogni presbitero si pensa e si vive come membro del presbiterio diocesano sotto la guida del vescovo, in collaborazione con i fedeli laici per costruire la Chiesa locale, la quale a sua volta resta aperta alle altre comunità ecclesiali, in dialogo con tutti gli uomini di buona volontà.
In ordine a possibili scelte per la vita presbiterale, da non mai disgiungere da un quadro ecclesiologico più ampio, tracciamo, partendo dalle esperienze in atto, alcune indicazioni.
Due domande indicano il percorso: cosa mette a disagio il prete, la sua vita e il suo ministero, e cosa lo aiuta, lo sostiene, lo fa essere apostolo oggi.

L’esperienza del disagio presbiterale come chance per un rinnovamento
"Tante cose da fare"

Tante cose…
L’obiezione più diffusa tra i preti, non solo giovani, è quella della impossibilità nel reggere un ritmo di vita per le tante cose che il ministero chiede, l’elenco sarebbe lungo. Anche quando non è presente una tentazione clericale e accentratrice il prete vive sommerso da molte richieste. A tale richiesta si invocano competenze varie: spirituali, liturgiche, amministrative, giuridiche, connesse al campo delle relazioni umane. Soprattutto la nostra realtà ecclesiale conserva ancora la preoccupazione pastorale di unire, coniugare, assemblare l’antico e il nuovo. Tutto viene mantenuto il più possibile perché tutto serve: le tradizionali quarantore e gli esercizi spirituali, la preparazione alla Cresima che va completata con nuovi itinerari post–cresima, la catechesi ordinaria assieme a forme nuove di formazione come i centri d’ascolto…
Vanno aggiunti anche i rapporti con le istituzioni del territorio, che sia sul piano degli adempimenti che su quello degli interventi formativi, diventano interlocutori sempre più rilevanti per i preti.
Non ultimo il fatto che aumentano i tempi e gli aspetti umani delle relazioni pastorali (accompagnamento, direzione spirituale, ascolto…) che possono togliere tempo alle attività più "istituzionali".
Un secondo dato presente nel nostro clero è la diffusa, soprattutto nel clero giovane, incapacità di capire cosa è importante e cosa non lo è. Una sorta di indifferenziata azione pastorale sembra avvolgere ansiosamente il clero. Tutto è importante allo stesso modo. Per di più il compito di adattamento, di ricomprensione della figura del presbitero, della sua vita e della sua funzione ecclesiale e sociale, è affidata in gran parte alla sensibilità, alla competenza, alla generosità, alle risorse dei singoli. Ne risulta che i tentativi di soluzione, appaiono parziali e arbitrari, non oggettivi e molto frammentari. Tale atteggiamento è legato anche alla difficoltà di avere un progetto pastorale di chiesa dove si individuano priorità e direzioni sufficientemente praticabili e condivisi.
Un terzo elemento comune è la percezione che invece le cose ritenute normalmente importanti spesso vanno a vuoto, si perdono. Un esempio abbastanza significativo è la vita sacramentale. Il conferimento dei sacramenti risponde ancora troppo a criteri dove la società si diceva cristiana. Per molti preti questo è diventato un peso interiore. Da una parte il singolo sacerdote ha la responsabilità di un numero sempre crescente di persone, dall’altra questi sono sempre meno disponibili a ricevere i sacramenti. Nascono interrogativi: si possono battezzare bambini che non ricevono un’educazione religiosa in famiglia? Si può celebrare un matrimonio quando gli sposi non sono pronti a vivere la vita matrimoniale come sacramento, e cioè alla luce di Gesù Cristo? Eppure ci si aspetta, anzi a volte si pretende, questo "servizio religioso", come spesso viene chiamato.
In questa prospettiva i vescovi tedeschi già otto anni fa si chiedevano:
"Quali compiti, quali impegni dovremo tralasciare? Dobbiamo ridurre gli asili, le case di cura e i consultori? Quali forme di sostegno dobbiamo cambiare? Come fare con le messe troppo frequenti, con la consuetudine di due o più celebrazioni pasquali serali? Possiamo continuare a fare così, anche se quasi tutti possono raggiungere agevolmente le chiese vicine grazie alla grande facilità di trasporti? Tutto ciò non si potrà affatto realizzare senza una "spiritualità del dire di no" per poter dire un sì più grande e più importante".

…da fare
Una polarizzazione molto presente nella vita e nel ministero del prete verte sul fare, che alla lunga si traduce in attivismo presbiterale. L’antica immagine del prete pastore è stata adattata alle circostanze odierne. La parrocchia è ancora il luogo d’insieme dove il presbitero presiede all’incontro di tutti, perché tutti trovino l’accoglienza necessaria, il sostegno indispensabile, l’orientamento e il nutrimento per la vita spirituale e umana. L’immagine del pastore che si dona, fa correre al prete il rischio di un attivismo divorante, ma rende tranquilla e motivata l’esplicitazione del ministero, al di là delle realizzazioni e degli insuccessi.
Manca però la coscienza di una vita cristiana, da prete, che deve essere alimentata, accresciuta, curata, sostenuta, condivisa. Questo non significa creare una scissione con la pastorale. L’esercizio del ministero è e deve essere "spiritualità in atto". Ma spesso nel sacerdote è carente il coinvolgimento personale, la comunicazione nella fede, la coscienza del proprio sacerdozio battesimale. E’ luogo comune che il prete parli sempre della fede o della non fede degli altri mai della sua. Raramente il Presbiterio diventa luogo e tempo di crescita cristiana e presbiterale. E’ quindi importante ripartire dalla propria vita cristiana, dalla comunicazione della fede non dalle strutture esterne. Le crisi dei giovani preti sono un richiamo evidente del fallimento del prete organizzatore. Infatti proprio perché il sicuro successo rimane lontano dall’attività sacerdotale, anzi si trasforma nel suo contrario, molti confratelli cadono in una nevrosi pastorale sempre più grande, che li brucia interiormente, oppure fomenta un’indolenza avvilente, che li porta a fare lo stretto necessario.
Una conseguenza dell’attivismo presbiterale risulta essere l’impoverimento delle relazioni più significative.
Il presbiterio diocesano, ad esempio, non diventa il luogo della fraternità sacramentale dove si privilegiano rapporti di fede a servizio del ministero. Gli incontri del clero assumono i connotati di assemblee dirigenziali, luoghi per far funzionare l’azienda, spazi di ridistribuzione di incarichi. Al meglio diventano momenti di comunicazioni pastorali, recezione di scelte stabilite in altre sedi. Una sorta di stanchezza connota gli incontri presbiterali. Il troppo fare spesso pregiudica anche uno scambio che sia un raccontarsi reciproco e ragionato sulle pratiche pastorali: questa carenza costituisce un elemento rilevante del disorientamento dei preti circa i cambiamenti in atto nella società e nella cultura.
Difficile quindi sperimentare in essi confronti pastorali schietti, sereni, ragionati, scambi di esperienze nella fede, relazioni che pongono attenzione alle persone più deboli e affaticate.
Anche il rapporto con la vita consacrata e con i laici rischia di esprimersi soprattutto in termini di bisogno pastorale: la carenza di funzionari chiede nuove forze in campo. Il discorso che si privilegia è ancora quello dei servizi intra–ecclesiali. Emblematica a tal proposito la dimenticanza di un laicato che vive una propria esperienza di fede nel mondo e che comunica con il presbiterio. Quando i preti parlano dei laici è per servirsene (catechisti, ministri dell’Eucarestia, operatori pastorali di ogni genere…). Tutto questo va a discapito di una dimensione missionaria del prete preoccupato più di far funzionare le strutture che di annunciare a tutti il Vangelo.
Alcune esperienze positive presbiterali
"C’è qualcosa che mi aiuta ad essere e a vivere da prete":
il Presbiterio
L’ecclesiologia di comunione e di missione impone di parlare del prete con altre categorie ma soprattutto ripropone l’istanza del Presbiterio inteso nella sua pregnanza teologica e pastorale. La verità assodata, ma ancora poco assimilata e vissuta, è che l’evento sacramentale dell’ordinazione forma un unico Presbiterio: "I presbiteri, costituiti nell’Ordine del Presbiterato mediante l’Ordinazione, sono uniti fra loro da intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono associati sotto il proprio vescovo" (PO 8: EV 1/1267). Affermazione che richiede una conversione, nuove forme presbiterali e scelte pastorali. Il traguardo è uno spontaneo senso di appartenenza al presbiterio dove il singolo presbitero non ricerca nella fraternità sacramentale il sostegno e l’appoggio per il proprio esistere bensì vive in pienezza il suo servizio. Nessun presbitero infatti può realizzare appieno la sua missione "se agisce da solo e per proprio conto, senza unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa" (PO 7: EV 1/1266).
Ciò che poi caratterizza il vissuto della vita del Presbiterio, spiritualità e ministero viene ricondotto con maggiore coscienza e chiarezza nella "carità pastorale" intesa sia nella sua valenza soggettiva, virtù che porta a pienezza la vita del singolo sacerdote e la sua realizzazione personale, sia nella sua portata oggettiva, come dedizione di sé per la crescita della fede di ogni credente. La carità pastorale ridonda quindi oggi come elemento unificante che rende autentica e realizzata la vita del Presbiterio ma che lo spinge sempre in una dimensione di missione e di annuncio della fede.
Date queste categorie, quella di Presbiterio e di "carità pastorale", ci si pone l’obbligo di riinterrogare la figura del prete dentro la nostra Chiesa.
La domanda che ci si può porre potrebbe essere questa: chi è il prete dentro il Presbiterio, cosa gli si chiede?
Alcune possibili risposte vengono proprio da un vissuto già in atto che rilascia nuove indicazioni per la vita e il ministero presbiterale.

1. "una qualche comunità di vita"

Una prima esperienza significativa che traduce la fraternità sacramentale in realtà è la tensione, presente in alcuni preti, di dar forma alla vita comune.
Le varie forme non costituiscono un valore per se stesse, ma sono mezzi, che in condizioni adatte e favorevoli, alimentano quella comunione per la quale molti si compongono in un unico Corpo che è la Chiesa. Le diverse esperienze restano prive di contenuto se non v’è questa presenza di Cristo. Allo stesso modo, però, l’idea di comunione rimane astratta e fittizia se non si concretizza in forme adatte a renderla operante nella vita quotidiana. E’ in questo contesto che il discernimento pastorale si fa concreto, la correzione fraterna schietta e non sfuggevole, la comunicazione nella fede rimette al centro la persona nella sua crescita, l’aiuto fraterno non diventa solo ideale.
Frequenti e periodici incontri
L’esperienza più diffusa oggi nel nostro clero è una diffusa insoddisfazione degli incontri che si fanno in ambito diocesano e vicariale per i ritiri mensili e per altri motivi pastorali. Si moltiplicano invece tra preti incontri frequenti e periodici fra gruppi, sia per affrontare la propria realtà pastorale , sia generati da un carisma o da interessi comuni, sia in continuità con amicizie nate e cresciute in seminario. Questi incontri sono capaci di contenere una autentica comunione ma possono perdere una prospettiva pastorale diocesana. In molti casi l’intendimento iniziale è quello di unificare la programmazione delle attività pastorali per evitare di disperdere le forze in tanti rigagnoli operativi non confluenti in indirizzi univoci. A volte questi incontri pastorali cercano felicemente di raccogliere la sfida della modernità che è quella di "reinterpretare" la fede e la pastorale alla luce della cultura della complessità. E’ auspicabile che le elaborazioni emergenti da queste fraternità confluiscano nel Presbiterio diocesano, abbiano una ricaduta "istituzionale", e trovino nell’intera comunità presbiterale diocesana l’esplicitazione di una comunione fruttuosa a servizio della Chiesa in unità con il Vescovo. D’altra parte la fraternità sacramentale non si identifica con l’istituzione Presbiterio e l’istituzione Presbiterio non esaurisce e struttura ogni fraternità. E’ un nodo questo che nel vissuto presbiterale non è completamente risolto.
Attraverso più o meno marcate difficoltà, passando a volte per periodi di stasi e di scoraggiamento, questi incontri diventano sempre più regolari e, in alcune zone, anche settimanali. A volte ci si è fermati a questo stadio altre volte però, da questi incontri è sgorgata una più profonda esigenza di fraternità che ha portato alla ricerca di passi ulteriori di comunione, impegnando i sacerdoti a cercare tempi più ampi e forme nuove di comunione e di annuncio evangelico (formazione e vita spirituale, progettazione pastorale).

La mensa comune
La seconda esperienza che si sta diffondendo è quella della mensa comune. Spesso esigita dalla difficoltà di non avere nessuno in casa. L’incontro diventa continuo e costante. Aumentano le possibilità di una conoscenza reciproca e viene favorito lo scambio di quello che ciascuno vive. Lo stesso vale in rapporto alla fecondità del ministero pastorale presso i fedeli, sia per la testimonianza di unità, sia per la progettazione dei programmi, per i quali può compiersi un confronto sulla validità operativa con ritmo praticamente quotidiano.
La mensa comune non è solo ristoro fisico, ma anche distensione psichica e riposo. Risulta essere poi luogo di informazione; circa l’attualità, che può essere locale, oppure più vasta sui fatti della vita della Chiesa e del mondo; oppure di tipo culturale (studio, ricerca, competenze).
La coabitazione
Non è l’esperienza più diffusa. Solo una parte di sacerdoti che desidera la vita comune poi è realmente preparata a viverla. Le esperienze in atto nelle nostre diocesi sono tutte sostenute e riconosciute dai vescovi che normalmente hanno raccolto le singole disponibilità. Forse sarebbe opportuno una lettura non superficiale di queste esperienze e valutarne la portata e l’incidenza nella vita e nel ministero.

2. Laboratori di pastorale per la nuova evangelizzazione

V’è oggi maggiore coscienza nel clero locale di una impossibilità a seguire e fare tutto ciò che la pastorale classica chiede. Questo dato sta producendo qualche tentativo di verifica pastorale soprattutto in territori dove vi sono piccole parrocchie e un’abbondanza di clero, spesso anziano.
Gruppi di preti, con l’aiuto di laici, stanno aiutando i vescovi a progettare una pastorale meno dispersiva di forze e di strumenti soprattutto in territori non molto ampi come le vicarie, le zone pastorali, o gruppi di parrocchie viciniore. Il risultato è la crescita paziente e lunga di progetti pastorali più attenti al territorio, alla nuova evangelizzazione, e alle forze in campo. Non mancano così risvolti positivi per il per il ministero: maggior collaborazione tra il clero, sgravo di alcuni servizi pastorali che vengono accomunati (sacramenti, catechesi, amministrazione), aiuto e sostegno verso sacerdoti più anziani. La maturazione di questi itinerari richiede tempi lunghi e il coinvolgimento di tutte le realtà ecclesiali.

3. Accoglienza e reciproco ascolto dei sacerdoti "fidei donum" e dei missionari

E’ forse una delle esperienze presbiterali più arricchenti ma un poco sofferte. Il ritorno in diocesi dei preti fidei donum. . Questi sacerdoti dicono con la loro vita che per essere disponibili alla missione, il presbitero non ha bisogno di una vocazione in più. Gli basta l’ordinazione. La figura di prete missionario quando è accolta definisce la figura del prete e la sua identità prima e più che la sua attività. In tal senso, l’esperienza dice che questi sacerdoti in diocesi provocano il resto del clero a formarsi al coraggio di uscire da ogni forma di particolarismo: dall’assedio dei vicini, per raggiungere i lontani; dalla sicurezza del piccolo mondo che ci appartiene, per avventurarci in terra straniera. E’ chiaro che è l’intera pastorale che deve farsi missionaria. Altrimenti il giovane prete si scontra con un’inerzia che alla lunga, e alle volte anche in breve tempo, potrà avere su di lui il sopravvento. Anche in tal senso il confronto con questi sacerdoti dovrebbe portare qualche riconversione all’attuazione del ministero nelle nostre Chiesa locali.

4. Reinserimento di preti anziani

Spesso i preti anziani chiedono di ritirarsi a vita privata. Molti però domandano, quando la salute lo permette, di mettersi ancora a servizio della diocesi pur non assumendosi la responsabilità di incarichi parrocchiali. La ricchezza e l’esperienza di sacerdoti ancora in forza e generosi spesso rivitalizzano anche altri sacerdoti. Non sono pochi quelli infatti che accolti in una parrocchia svolgono un servizio prezioso sia per quanta riguarda il sacramento della riconciliazione, sia per la pastorale degli ammalati e degli anziani.
E’ questa una realtà sacerdotale da curare e da riconoscere.
Linee emergenti di figura di prete
La lettura della vita del Presbiterio raccolta in queste brevi cartelle non è certamente completa. La prospettiva è stata quella di una lettura del vissuto per coglierne valenze e indicazioni positive per il futuro prossimo.
Sembra di dover riconoscere alcuni elementi comuni di rilievo.
Un primo dato è la richiesta di comunione presbiterale. Dato che per altro si presta però ad una duplice lettura. Da un lato vi sono segnali di ricerca di comunione: si creano ambiti di ritrovo non istituzionale (frequenti incontri), si desidera una collaborazione pastorale ( unità pastorale), si pensa alla vita concreta del prete anziano e malato (preti residenziali e o in case di cura). Dall’altra però si pongono, da parte degli stessi preti, paletti per garantirsi una "giusta autonomia" e per conservare un modello di pastore che deve comunque "arrangiarsi" sia nella vita privata sia nell’azione pastorale.
Questo dato mette in luce resistenze individualistiche ancora presenti nel nostro clero ma dall’altra richiama e riporta l’istanza della comunione presbiterale dentro l’alveo della missione del prete: la comunione presbiterale deve avere una sottolineatura missionaria. La comunione presbiterale è per la missione. Ogni forma concreta che manifesta questa dimensione della vita del prete non può chiudersi in manifestazioni di solo recupero della vita familiare.
Un altro aspetto è la richiesta di unità di vita: il vissuto presbiterale, mostra ancora dualismi e contrapposizioni quali, spiritualità e apostolato, comunione e missione, vita privata e vita di presbiterio, fraternità sacramentale e istituzione del Presbiterio.
La frammentazione culturale e sociale acuisce questa carenza.
La letteratura sulla vita del presbitero ha bene elaborato questa dimensione (cfr. G. Moioli) ma il vissuto mostra ancora forti tensioni . La domanda di unità di vita va posta, in primo luogo, alla spiritualità presbiterale.
Presente è pure la domanda di formazione permanente. Anche questo elemento richiede una attenta riflessione. Spesso la domanda non viene ancora formulata e manca di una rinnovata strumentazione (es. le proposte di formazione permanente istituzionali stanno vivendo un momento di nuova impostazione). Emerge la figura di un prete che si interroga e che sente di essere inadeguato sia con la sua persona sia con le strutture pastorali al vuoto di fede e alla domanda di nuova evangelizzazione. In questo disagio più cosciente vanno nascendo laboratori di esperienze sacerdotali che hanno però bisogno di confluire in un dato più oggettivo e unificato.
L’elemento però costante è la ridefinizione del prete come uomo di relazione. Uomo di relazione perché di questa lui stesso ne ha bisogno ma soprattutto uomo di relazione perché l’intera sua identità e il suo ministero oggi non si può non pensare se non nella trasmissione vitale e sacramentale di relazioni umanamente piene e cariche di fede.

* Ampi stralci del documento della CPR della Lombardia sono stati pubblicati su Settimana n. 8 (4 marzo 2001, pp. 8–9)