Si è appuntata sulla formazione dei sacerdoti l’attenzione della Commissione Presbiterale della CEI, riunitasi a Roma dal 9 all’11 ottobre.
I lavori hanno preso in considerazione in primo luogo il delicato tema del rapporto tra famiglia e formazione sacerdotale, a cominciare dalla relazione introduttiva di don Mario Aversano, rettore del seminario minore e direttore del CDV di Torino, il quale ha preso le mosse dalla propria esperienza di vita comune e fraterna, nell’accompagnamento dei giovani alla scoperta della propria vocazione. Da questo punto di vista, ha sostenuto, le famiglie possono e debbono dare un contributo determinante grazie ai loro doni specifici.
Oggi infatti chi arriva in seminario vi perviene con biografie molto diversificate, ma con precomprensioni abbastanza simili e coerenti fra loro, che includono talvolta anche afflati mistici ed eudemonismo spirituale, anziché consapevolezza del dono della vita affidata al Signore nella Chiesa. Forte è l’impulso alla realizzazione di sé attraverso la vocazione, ma la prosaicità dell’esistenza feriale rischia di essere lo scenario quotidiano in cui si fa fatica a situarsi. Da questo punto di vista l’incontro e il confronto con la famiglia ha una grande importanza sia perché offre un riferimento alternativo rispetto ai nuclei familiari di origine, sia in quanto corregge certe visioni distorte formulate in termini eccessivamente eroici: il perfezionismo spirituale rischia infatti di lasciare ben poco spazio ad una autentica vita di relazione. “Un giovane che non curi la propria statura umana espone in realtà se stesso a grossi pericoli”, ha sostenuto don Aversano.
I coniugi Luca e Ileana Carando, sposati da 17 anni e con 4 figli, hanno portato a questo proposito il contributo della loro esperienza. La scelta di un giovane che si è avviato sulla strada del sacramento dell’Ordine è sicuramente motivata dall’amore, ha affermato il primo, e questo pare particolarmente significativo dal momento che la causa dell’infelicità e dell’aridità nelle relazioni è legata allo scarso esercizio dell’amore quotidiano, che fa smarrire la “polifonia dell’esistenza” (Bonhoeffer). L’affettività è una dimensione imprescindibile della nostra struttura antropologica e non può essere ignorata, particolarmente dai preti, a cui è richiesto di amare tutti in generale ed in astratto, con il rischio di non stringere mai delle relazioni significative.
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